Nel corso di un colloquio lei ha detto che la realizzazione di ciò che sentiamo veramente non richiede alcuno sforzo. Ma se vogliamo studiare il pianoforte abbiamo bisogno di esercitarci molto, prima di poter suonare senza sforzo. Se lo sforzo si applica ad oggetti limitati, perché non dovrebbe applicarsi all’infinito?
Noi impariamo a suonare il pianoforte osservando una rappresentazione della musica e cercando di esternarla poi sullo strumento. Questo non deve richiedere uno sforzo. La prima volta in cui si suona un pezzo, lei osserva ciò che accade. Prendendo nota della posizione della sua mano, del modo in cui la musica suona, e cosi via, viene a contatto con la musica. Suonando una seconda volta, comincia a discernere quello che potrebbe contribuire ad una perfetta esecuzione del pezzo. La terza volta allora suona a perfezione.
Nello stesso modo arriva a realizzare la sua vera natura. Prima vi è l’osservazione, ed è questa osservazione a consentire la discriminazione, la quale conduce a sua volta ad un insight, ad un’intelligenza spontanea. Nulla di tutto ciò richiede uno sforzo.
La parola “sforzo” implica intenzione, la volontà di raggiungere qualche fine. Ma questo fine è una proiezione che viene dal passato, dalla memoria, e cosi dimentichiamo di partecipare al momento presente. Può essere giusto parlare di “retta attenzione” nel senso di ascolto incondizionato, ma questa attenzione è diametralmente opposta allo sforzo, in quanto essa è totalmente libera da direzione, motivazione e proiezione.
Nella retta attenzione il nostro ascolto è incondizionato: li non vi è l’immagine di una persona ad impedire un ascolto globale. Non si tratta di un ascolto limitato all’orecchio. Tutto il corpo ascolta. Esso è completamente fuori dalla relazione soggetto-oggetto. Accade l’ascolto, ma niente è udito e nessuno ascolta. E poiché l’ascolto incondizionato è la nostra vera natura, giungiamo a conoscere noi stessi nell’ascolto.
Tuttavia raramente siamo in accordo. Viviamo più o meno continuamente nel processo del divenire. Proiettiamo l’immagine di essere qualcuno e ci identifichiamo con lui. Ma finché ci prendiamo per un’entità indipendente si perpetua una fame, un senso di incompletezza.
L’ego è continuamente in cerca di soddisfazione e di sicurezza, e da ciò nasce il suo perpetuo bisogno di diventare, di raggiungere, di portare a compimento. Perciò non entriamo mai veramente in contatto con la vita, perché questo richiede un’apertura che si rinnova di momento in momento. In questa apertura si estingue l’agitazione generata da cercare di colmare l’assenza che è in voi, e nel silenzio di fondo siete ricondotti alla vostra completezza.
Quando non avete un’immagine di voi stessi, allora siete uno con la vita e con il movimento dell’intelligenza.
Soltanto allora possiamo parlare di azione spontanea. Noi tutti conosciamo momenti in cui sorge un’intelligenza pura, libera da interferenze psicologiche, ma appena torniamo all’immagine di essere qualcuno, interroghiamo quest’intuizione chiedendoci se essa è giusta o sbagliata, buona o cattiva per noi, eccetera.
Tutto ciò che facciamo intenzionalmente appartiene all’ “Io-ego”, e sebbene ci appaia come un’azione si tratta in realtà di una reazione. Soltanto ciò che nasce spontaneamente dal silenzio è azione, e non lascia residui. Infatti non potete neppure ricordarlo. L’azione intenzionale dell’ “Io-ego” lascia sempre un residuo, che può emergere nello stato di sogno o persino come una fissazione alla quale daremo più tardi il nome di malattia. Nella spontaneità, l’azione si compie ma non c’è nessuno che agisce. Qui non c’è strategia o preparazione.
C’è soltanto una consapevolezza libera da agitazione e memoria, e in questo silenzio ogni azione è spontanea perché ogni situazione appartiene alla vostra apertura e vi dice esattamente come procedere. La vera azione non proviene dal raggiungimento ma sgorga da un’osservazione recettiva.
Per esempio, quando vedete un bambino attraversare una strada non vi fermate ad interrogarvi pensando: “Devo correre in suo aiuto o devo lasciare che se la cavi da solo?”, ma agite. E anche se avete compiuto quest’azione venti volte, essa è nuova ogni volta. Appartiene, in senso assoluto, al momento.
Jean Klein