Dialogo del principe Hemacuda e della principessa Hemalekha
Dopo il loro matrimonio il principe Hemacuda e la principessa Hemalekha vissero per qualche tempo felici nel loro palazzo reale. Ma poco a poco la principessa divenne distante, distratta, indifferente a tutto. Il principe afflitto le chiede i motivi del suo cambiamento di attitudine.
Hemaleka : Oh principe, ascoltami. Non è vero che non ti amo, ma mi tormenta un pensiero. Non riesco a sapere che cosa è bene o male per l’uomo in questo mondo. Ci rifletto da molto tempo, ma come può trovare la risposta una donna come me? Istruiscimi per favore.
A queste parole Hemacuda scoppiò a ridere e rispose:
Hemacuda : Hanno proprio ragione nel dire che le donne hanno poco giudizio. Persino i quadrupedi, gli uccelli e gli insetti sanno che cosa è buono o cattivo per loro. E’ chiaro che tutti gli esseri manifestano la tendenza a cercare le cose piacevoli e buone ed a evitare le altre. E’ bene ciò che procura piacere, male ciò che causa dolore. Mia cara, non è un grosso problema! Come ha potuto tenerti occupata così a lungo?
Hemalekha : L’hai detto: noi donne manchiamo di giudizio. Ed è per questo che sono pronta ad arrendermi alle tue ragioni. Spiegami tutto ciò chiaramente ed io abbandonerò le mie meditazioni per gioire della vita al tuo fianco. Hai detto che il bene è il piacere e che il male è il dolore. Eppure succede che una stessa cosa procuri, a seconda del luogo e del momento, talvolta piacere, talvolta dolore. Il fuoco, per esempio, è piacevole in inverno ma difficile da sopportare in estate. Può anche essere piacevole a piccole dosi ma sgradevole in grande quantità. Prendi tuo padre, il re. Ha tutto ciò che può desiderare: il potere, l’oro, i palazzi, gli elefanti, un harem, una discendenza. Perché allora è sempre triste mentre altri che non possiedono tutte queste cose vivono contenti? Non è quindi evidente che gli oggetti di piacere non esistono sempre e dappertutto in quantità illimitata, in modo che gli stessi re incontrano ogni istante la delusione del “non abbastanza” o del “troppo”, del “non ancora” e del “non più”?
Non è forse vero che il piacere si acuisce con il piacere cosi come l’incendio è attizzato dal vento? E che più un essere è cosciente, dunque atto alla gioia, più e vulnerabile al dolore, come l’occhio che la minima polvere irrita, cossiché l’uomo può essere proprio la creatura più infelice dell’universo?
Dopo aver sentito queste parole il principe sprofondò nella malinconia. Abituato com’era a gioire dei piaceri, non poteva nè abbandonarli completamente nè continuare a darsi ad essi senza scrupoli. Si rivolse di nuovo alla principessa.
Hemacuda : Oh carissima, finora non avevo riconosciuto la profondità del tuo spirito. Ormai le tue parole mi abitano al punto che sono come un condannato a morte che non può più gustare le portate poste dinanzi lui. Lasciami aprofittare della tua saggezza, dimmi che cosa devo fare per raggiungere la vera felicità.
Hemalekha : La sola cosa che importi è che tu apprenda a riconoscere ciò che costituisce l’essenza del tuo essere.
Hemacuda : Ma tu puoi dirmi come posso riuscire a sapere chi sono io?
Hemalekha : Tutto quel che devi fare è essere attento. Comincia con il purificare la tua intelligenza perché abbiamo bisogno di essa per comprendere la natura del Sè. In un certo senso è conosciuto da tutti, dagli dèi fino alle più infime creature, ma non si presenta mai sotto una forma visibile. Ed è per questo che per essere esatti non si insegna. E’ come se si domandasse a qualcuno di mostrarci i nostri stessi occhi. Tutto quel che può fare un maestro o un istruttore è indicare la via e i mezzi. Il metodo consiste nel discriminare quel che è “mio” e quel che è “io”.
Ritirato in un posto tranquillo sforzati di eliminare sistematicamente tutto ciò che può essere chiamato “mio”. Il residuo, ciò che in nessun caso potrà apparire come “mio”, sarà il Sé.
Per esempio, tu mi vedi e mi conosci come tua sposa. Questo significa che posso essere detta “tua” in funzione di una certa relazione, ma che non appartengo in nessun modo all’essenza del tuo essere.
Dopo aver inteso queste parole il principe si affrettò a ritirarsi nel suo palazzo. Diede degli ordini alle guardie appostate agli ingressi del parco per evitare che qualcuno lo disturbasse. Salì i nove piani del palazzo e si installò sul terrazzo da dove lo sguardo si spingeva molto lontano sulla campagna circostante. Li si sedette su una stuoia e concentrando il suo spirito si mise a riflettere:
“In verità il mondo intero è pazzo.
Nessuno conosce se stesso e ciononostante tutti si impegnano in diverse attività nelle quali pensano di torvare il loro proprio interesse. Alcuni passano il loro tempo a studiare le Scritture, altri le leggi. Alcuni combattono dei nemici e altri si danno ai piaceri, tutto nell’ignoranza di quel che sono.
Io stesso finora non ho fatto nient’altro. E’ tempo ch’io mediti sulla mia vera essenza. Non mi riconosco in nessuna di queste cose disposte attorno a me: il tesoro, l’harem, gli elefanti, i cavalli, il palazzo, il regno tutto intero. Sono tutte puramente e meramente mie.
Ma questo corpo non è forse me stesso? Così sembra. Sono nato in una famiglia reale, sono magro e ho la pelle chiara ecc., ecco che cosa sono”.
Però, continuando la sua meditazione, si ravvisò: “No, io non sono il mio corpo. Fatto di carne, di sangue e di ossa, si trasforma di istante in istante. Non uno sono di tutti gli atomi di cui ero composto quando ero bambino sussiste oggi. Eppure ho coscienza di essere “lo stesso” che ero durante la mia infanzia. E inoltre mentre in sogno attraverso ogni sorta di stati, questo corpo rimane inerte quasi come una pietra.
Come potrebbe essere me stesso? Eppure è un fatto, io esisto. Altrimenti come potrei ricordare di avere dormito e sognato, per esempio? A meno che io non esista assolutamente? Ma no, questo non è possibile: chi avrebbe avuto l’esperienza del sogno in questo caso? Chi cercherebbe allora in questo momento di conoscere la sua propria essenza? Io sono dunque qualcosa di cosciente e di diverso dal corpo.
Non sono forse questo soffio vitale che produce tutti i movimenti del corpo? No, perché nel sonno profondo, nonostante la persistenza del soffio, non si sa nulla degli oggetti che ci circondano.
Allora forse sono il senso interno (manas)? Ma quest’ultimo è fatto di pensieri che si susseguono senza tregua come le onde che si infrangono sulla riva. Perché mi identificherei con questo pensiero piuttosto che con quello? Ed è lo stesso per l’intelletto (buddhi), l’organo del giudizio e della decisione.
Quanti giudizi esprimiamo nel corso di una giornata? Ora, io ho coscienza di rimanere lo stesso da un capo all’altro della giornata, meglio, non riesco a immaginarmi in nessun momento del tempo come non esistente.
Il corpo, il senso interno, l’intelletto, sono tutti miei. Senza alcun dubbio io sono qualcosa che conosce, ma non riesco a discernere con quale strumento posso conoscere a sua volta questo Conoscitore che è in me.
Eppure mi sembra che attraverso questo stesso insuccesso io mi sia avvicinato un pò alla mia vera essenza. Come è strano tutto ciò! Si direbbe che quel che cerco di conoscere si allontani quando penso di afferrarlo con il pensiero e si avvicini non appena abbandono la tensione del mio spirito.”
Hemacuda abbandonò allora ogni attività del pensiero. Ben presto si trovò avvolto da spesse tenebre. Pensando si trattasse dell’essenza del Sè, fu preso dall’angoscia. Ritornando in sè decise di fare un nuovo tentativo. Controllandosi con l’Hatha-Yoga fu posto in presenza di una strana luce diffusa che non sembrava venire da alcuna direzione. Poi, nel corso di un nuovo tentativo, si addormentò ed ebbe ongni sorta di sogni, alcuni piacevoli, altri spaventosi. Appena desto riprese la sua concentrazione e sprofondò lo spazio in un istante in un insondabile oceano di gioia. Ma ancora una volta ritornò alla coscienza ordinaria. La sua perplessità era grande: aveva soltanto sognato a aveva raggiunto il Sè, e se si, il Sè era luce o tenebre, o caos d’immagini, o gioia? Incapace di giungere a una conglusione definitiva decise di ritornare a consultare la principessa.
Hemacuda: Cara sposa, ho fatto tutto quel che mi hai raccomandato di fare. Ho immobilizzato il mio spirito sopprimendo ogni sua attività, sia quelle interne che quelle dirette verso l’esterno. Successivamente ho incontrato le tenebre, la luce, ho sognato e ho proato una gioia profonda.
Ma in tutto questo, dov’è l’essenza del Sè?
Hemalekha : Hai fatto bene a cercare di controllare il tuo spirito. Nessuno ha mai potuto possedere la conoscenza del Sè senza questa disciplina. Ma, o carissimo sposo, che ti sia ben chiaro che questi mezzi presi di per se stessi non procurano l’accesso al Sè, perché quest’ultimo è sempre raggiunto, sempre presente. Se fosse qualcosa da ottenere, dunque qualcosa di esterno e di estraneo, come potrebbe chiamarsi “Sé”? A dire il vero non si può raggiungere. E’ per essenza “fuori portata”. Lasciami giustificare questo con un esempio. Supponiamo che un oggetto qualunque non sia visibile a causa dell’oscurità. Si porta una lampada e si scopre l’oggetto come se fosse stato appena prodotto nel suo stesso posto. O ancora, immagina che distratta non sappia più dove ho posato il mio braccialetto. La sola cosa che devo fare è compiere uno sforzo di rammemorazione che consiste nell’eleminare ogni altra specie di pensiero.
Allora ritroverò il braccialetto là dove l’avevo lasciato come se apparisse in quel luogo per la prima volta. Il controllo delle attività del pensiero qui è servito soltanto a scartare gli ostacoli per la rammemorazione. E’ lo stesso nel caso del Sè.
La verità è che ignoranti che siamo della natura del Sè, e dunque incapaci di riconoscerlo a dispetto della sua presenza indefettibile, lo cerchiamo vanamente al di fuori di noi stessi. Conosci la storia di quello spirito semplice che si reca una sera al palazzo reale, tutto brillante di luce? Attorno a lui vantano la bellezza delle illuminazioni, ma ignorando il senso della parola “illuminazione” egli domanda che gliene venga portata una e che sia posta proprio sotto una torcia perché possa vedere bene che cos’è.
Il tuo caso, caro sposo, è esattamente lo stesso! Ebbene, tutto quel che devi fare è cercare di rivivere l’istante intermedio tra il compimento della sopressione delle attività del pensiero e l’apparizione delle tenebre, perché l’essenza del Sé vi si manifesta più chiaramente che altrove. E’ li che coloro i cui occhi sono abituati a contemplare il mondo esterno si ingannano facilmente, si affaticano, sono vittime di allucinazioni e non riescono in fin dei conti a riconoscere il Sé. Esistono molti uomini edotti nelle Scritture, dei sapienti e dei logici. Tutti o quasi, restano schiavi del dolore perché non sono riusciti a discernere il loro Sé. Per questo in effetti non basta aver appreso a interpretare le Scritture.
Il Sé è qualcosa situato a distanza, in modo che per raggiungerlo bisognerebbe prima percorrere questa distanza. Non è qualcosa che l’intelletto sia capace o incapace di spiegare. Cosi come non si potrebbe raggiungere la propria ombra correndo dietro di lei, allo stesso modo non c’è niente da “fare” per raggiungere il Sé. Come un bambino vede mille cose riflesse in uno specchio posto dinanzi a lui ma non vede lo specchio in quanto tale, cosi gli uomini vedono l’infinità dei fenomeni del mondo riflessa nello specchio del Sé, ma non hanno nessuna idea della vera natura di questo Sé. Allo stesso modo ancora colui che ignora che cos’è lo spazio vede solo delle cose nello spazio e crede che lo spazio sia un grande ricettacolo. Questo mondo tutto intero, o carissimo, è costituito dalle attività della conoscenza da un lato e dagli oggetti di conoscenza dall’altro. Ma tra i due la coscienza assoluta, l’ipseità, rimane autorivelata e autosussistente. Ed è per questo che non è richiesto nessuno strumento per conoscerla. Qualcuno potrebbe chiedere come si fa a sapere che esiste qualcosa come la coscienza assoluta. Ma non è nepppure necessario rispondere a questa domanda : se la coscienza non esiste allora la domanda e la risposta svaniscono insieme. La coscienza è al di là del dubbio. Non si può nemmeno immaginare la sua esistenza. E non è limitata nè dal tempo nè dallo spazio perchè il tempo e lo spazio sono le prime cose che vengono a riflettersi nel suo specchio. Questa è la tua essenza, e chiunque realizzi questa verità in tutta la sua portata diventa il creatore dell’universo.
Lascia che ti dica grazie a quali esperienze ti sarà meno difficile realizzarla. La incontrerai per esempio nell’istante che separa la veglia dal sonno e il sonno dalla veglia, nell’istante in cui l’intelletto salta da un oggetto all’altro, nello stupore che provoca il trovarsi di fronte a un oggetto terrificante o l’incontro improvviso di un parente o un amico che non si sperava più di rivedere. Medita su tutto questo e una volta che avrai compreso non sarai più affascinato da nessun’altra cosa. Tutto riposa nella coscienza, densa e omogenea come la parete lisica di uno specchio, e il dispiegamento apparente dell’universo nello spazio e nel tempo è dovuto soltanto all’ignoranza di questo fatto. Il Sé non è nè il soggetto conoscitore nè l’oggetto conosciuto, ma il loro fondamento comune. E’ lui il Supremo Signore che gli uomini chiamano ora Vishnu, ora Shiva, ora Brahma. Cerca di realizzare questo da te. Ritira i tuoi sensi, volgi il pensiero verso l’interno.
Abbandona anche la coscienza stessa di comprendere o non comprendere questa verità, e allora ciò che avverrà sarà il Sè.
Cosi guidato il principe raggiunse ben presto lo stato chiamato “concentrazione priva di costruzioni mentali”. A capo di qualche ora ritornò a uno stato di coscienza ordinario e vide di nuovo il mondo disposto intorno a lui. Subito provò il desiderio di ritornare alla sua concentrazione e per questo chiuse gli occhi. Allora Hemalekha gli prese la mano e si rivolse a lui:
Hemalekha : O carissimo sposo, che cosa ti appresti a fare? Non ti capisco! Che cos’hai dunque da guadagnare chiudendo gli occhi e da perdere aprendoli?
Hemacuda : Carissima, dopo una lunga ricerca ho infine raggiunto il dominio della pace interiore. Dove troverei in questo mondo freddo e secco, pieno di sofferenza e di miseria, un tal luogo di riposo? Tutte le attività mondane mi sembrano ormai vane come dei resti di canna da zucchero a cui sia stato estratto il succo. Per sfortuna non avevo mai potuto provare fino a poco fa questo stato di beatitudine. Adesso mi vedo come un uomo che ha fatto il giro del mondo mendicando il suo nutrimento, dimentico del tesoro nascosto sotto le ceneri del suo focolare. Senza fare attenzione all’oceano di felicità contenuto in me da sempre, io mi disperdevo nella ricerca dei piaceri. Li credevo stabili e solidi quando invece passano come il fulmine, ed è per questo che soffrivo. Che cosa strana! Tutti gli uomini desiderano essere felici e fanno esattamente il contrario di quel che procurerebbe loro la felicità. Oggi, carissima, le mie sofferenze sono finite. Non desidero nient’altro che rimanere in questo stato di felicità insuperabile. Ma ho pietà di te che dopo aver conosciuto uno stato simile continui non di meno a partecipare come una folle alle abituali occupazioni di questo mondo.
Hemalekha : Caro sposo, mi dispiace profondamente che tu non abbia ancora ben compreso. Questa suprema felicità che una volta conosciuta impedisce per sempre di essere affascinati da questo mondo, per te è ancora soltanto un orizzonte lontano. Tutto quello che hai appreso finora non vale praticamente niente. Dunque tu credi che l’apprendimento della Realtà abbia qualcosa a che vedere con l’aprire e chiudere gli occhi? Come si può considerare come assoluto uno stato al quale si accederebbe esercitando un’azione determinata o astenendosi da questa attività? La realtà si lascerebbe dunque rivelare abbassando semplicemente queste palpebre larghe quanto quattro grani di riso?
Fintanto che i nodi in te non saranno stati disfatti non gusterai questa suprema felicità. Questi nodi sono stati confezionati con la corda dell’illusione. L’illusione, cioè l’ignoranza della nostra propria essenza, è senza inizio, ed è per questo che noi nasciamo legati da essa. La credenza che il corpo sia il Sé forma il nodo principale. Innumerevoli nodi secondari sono annodati su di esso. Credere che all’interno del mondo non esista, da nessuna parte, qualcosa come il Sé, costituisce un altro nodo. Credere che gli individui differiscano gli uni dagli altri e ognuno da Dio è ancora un altro nodo. E’ libero solo colui che ha spezzato questi nodi. Smetti dunque di pensare di raggiungere questo stato chiudendo gli occhi. Esso non è altro che la nostra propria essenza e s’identifica con la coscienza assoluta che rimane anche dopo la dissoluzione di tutte le forme. Non si può neppure dire che sia uno “stato”. Potresti dirmi quando e dove non è? Lo specchio non è forse presente dappertutto là dove esistono i riflessi? Il luogo e il momento in cui la coscienza assoluta non sarebbe presente sono altrettanto inesistenti quanto il figlio di una donna sterile. Come dunque ciò che non potrebbe essere assente mai e da nessuna parte potrebbe sparire quando tu apri gli occhi?
Caro sposo, dimmi dunque dove non trovi questa suprema coscienza simile all’incendio che divora ogni cosa alla fine di ogni periodo cosmico? E’ lei che rende simile a se stessa tutte le nostre attività, sia corporali che mentali, esattamente come il fuoco, consumando ogni varietà di legno, dal fico al sandalo, li rende simili a se stesso. Chi ha compreso questa verità non sente più la minima inclinazione ad aprire o chiudere gli occhi. Abbandona dunque la tua pretesa di identificarti con questa coscienza per mezzo di un controllo delle tue attività mentali. Spezza ugualmente il nodo che consiste nel credere che il dispiegamento cosmico sia qualcosa di diverso da quel che costituisce la tua propria essenza.
Questo universo tutto intero si riflette nella coscienza come il cielo immenso si riflette in uno specchio largo come una mano. Realizza questo e poi comportati come una persona ordinaria. Non ritirarti nella solitudine, rimani dove sei e abbandona anche il sentimento di raggiungere la coscienza assoluta.
Dopo aver lungamente meditato queste parole Hamacuda fu infine liberato dalle sue ultime illusioni. Non pensò più a ritirarsi dal mondo e visse ancora a lungo in compagnia di Hemalekha. Morto suo padre, governò il vasto regno facendo giustizia, assicurando a tutti la sicurezza, facendo anche la guerra quando non poteva evitarla. Non perdeva occasione di fare scavare pozzi e cisterne, di far piantare alberi lungo le strade, di far costruire ripari ai pellegrini. Gli piaceva ascoltare i discorsi religiosi tenuti da asceti e da santi di ogni confessione. E faceva in modo che anche il suo popolo avesse occasione di ascoltarli. Pur accumulando ricchezze non cercava di riempire il tesoro reale ma adempiva grandi sacrifici solenni come l’Ashvamedha o il Rajasuya.
Considerava ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, uomini e donne, vecchi e bambini, allo stesso modo, non esultava di gioia nel successo, non si lamentava nelle avversità. Assolveva il suo incarico reale come un buon commediante recita sulla scena la parte di un re. Sembrava sempre ritirato in se stesso, a mille miglia dagli intrighi della corte, eppure smascherava sempre in tempo i complotti e faceva esattamente quel che le circostanze esigevano. In breve, conduceva l’esistenza di un liberato vivente.
Ben presto gli stessi ministri si misero a imitare il suo esempio e, meditando sull’essenza del Sé, accedettero, l’uno dopo l’altro, allo stato di liberati viventi. E poco a poco tutti gli abitanti del regno intrapresero la stessa via. Smisero tutti di identificarsi con il loro corpo. Superata la passione, la collera e l’invida, assolvevano il loro dovere di stato con il più grande zelo. Le madri si misero a cullare i loro figli canticchiando strofe in lode del supremo Brahma. Gli attori rappresentarono il combattimento eterno della Luce e dell’Illusione. I buffoni prendevano in giro l’agitazione assurda nelle ambizioni e negli interessi mondani. Tutti in questo vasto rengo, ministri, generali, commercianti, letterati, artigiani, pastori, prostitute, ladri e boia, realizzarono il Sé e fecero di questa realizzazione la ragion d’essere della loro esistenza. Nessuno si preoccupava più di sapere di che cosa sarebbe stato fatto il domani. Tutti si accontentavano di vivere di istante in istante. Accoglievano con la stessa serentià gli avvenimenti gioiosi e i lutti, e ogni momento era per essi come un’eternità. Cosi il regno si mise a fervere di attività come un alveare.
Tantra del X° secolo (Tripurarahasya, cap. IX-X)
(Traduzione di M. Cravero)