Jaques Lusseryan (1924-1971) è nato a Parigi dove ha compiuto i suoi studi. All’età di otto anni ha perso la vista in seguito ad un infortunio. Durante la guerra partecipa alla Resistenza, viene arrestato dalla Gestapo e internato a Buchenwald.
Ecco la mia storia : ho veduto, veduto con i miei occhi, fino all’età di otto anni e poi, da più di vent’anni sono cieco, cieco del tutto.
Questa storia, questa esperienza, lo so, è la mia grandissima felicità.
So anche che cosa si può replicare a questa mia affermazione : “Sono parole. E’ intemperanza poetica. E’ una favola consolatrice. E’ una mistificazione. E’ una resistenza orgogliosa contro il destino”.
Non è niente di tutto questo. Conosco troppo bene questa felicità, che non ho conquistata, ma mi è stata donata, e per vie del tutto naturali. So pure che non è un mio privilegio, una mia proprietà, ma è un regalo che ogni giorno devo accettare di ricevere e che tutti i ciechi, a loro volta, possono ricevere.
La vista è un senso prezioso, lo sanno bene quelli che ne sono privi. Ma anzitutto la vista è un senso pratico.
La vista permette di utilizzare le forme e le distanze, di ogni oggetto fa un oggetto utile o, per lo meno, utilizzabile.
Essa si presenta come un prolungamento delle nostre mani, come un potere supplementare di manualità. Grazie agli occhi ci spingiamo più lontano, ci annettiamo una parte più grande di universo. Agiamo ancora là dove le nostre braccia e le nostre gambe non arrivano.
Gli occhi permettono delle percezioni simultanee, servendoci di essi non è più necessario conoscere gli oggetti uno per uno, confrontarli a misura del nostro corpo. Gli occhi permettono delle belle vittorie sullo spazio e sul tempo.
Questo è il privilegio essenziale della vista : essa ci situa al centro di un mondo più vasto di noi.
La vista predilige le apparenze, questo fa parte della sua natura. Essa tende a prendere le conseguenze per cause. Attitudine avvincente nel caso della luce : gli occhi credono di vedere il sole, mentre incontrano solo degli oggetti illuminati.
Il pericolo della vista deriva quindi dal suo stesso potere, dalla sua prontezza, dalla sua utilità e ciò si verifica soprattutto quando ci basiamo su di essa per conoscere gli altri uomini.
Pensiamo ai guai che provocano nei nostri giudizi gli abiti, le pettinature, i sorrisi delle persone che incontriamo. Dall’abito, dal sorriso, derivano la maggior parte dei nostri amori e dei nostri odi, e anche delle nostre opinioni.
Ma da che cosa deriva quell’attimo in cui gli occhi che vedono si socchiudono, e diventano interiori?
Questo gesto si chiama in più modi : riflettere, concentrarsi, riafferrare se stessi; si tratta, a pensarci bene, di un atto riflesso di difesa contro la vista. Si tratta, dopo aver ricevuto dagli occhi le immagini, di fermarle, di fissarle in noi al di fuori di qualunque supporto visivo, in breve, di dar loro una forma di esistenza del tutto nuova : l’esistenza interiore.
Senza tale rinuncia anche solo provvisoria a tutto quello che apportano gli occhi, non ci può essere, credo, vera conoscenza.
Ciò che si deve tenere a mente è che la vista non consiste solo nel lavoro degli occhi.
La vista, la possibilità di vedere, preesiste all’occhio come strumento. Finché gli uomini dimenticheranno questo fatto incorreranno in molte illusioni e in molti insuccessi.
Diventeranno impazienti, vorranno vedere, vedere sempre di più, senza sapere, di fronte a questo torrente di immagini, chi è che realmente vede tutti questi spettacoli.
Ma un cieco lo sa, e non in grazia di un dono eccezionale dell’intelligenza o per suo merito; lo sa naturalmente. Privo del beneficio degli occhi egli può misurare tanto la perdita che subisce, quanto il vantaggio che ne trae.
Soprattutto il cieco continua a vivere e a sperimentare con una forza irresistibile quel meraviglioso scambio reciproco che avviene tra il mondo interiore e il mondo esteriore.