Martin Buber chiese una volta a suo fratello: “Dimmi dov’è la tua pena perché vorrei aiutarti”. E suo fratello rispose: “Se mi ami, saprai dov’è la mia pena”. Talvolta siamo consapevoli della sofferenza di coloro che amiamo. Che cosa dobbiamo fare con questa sofferenza?
Quando lei possiede l’immagine di suo fratello o di qualcuno che è ammalato, lei è complice di questa malattia. Soltanto quando cessa ogni proiezione l’osservazione è libera e la consapevolezza totale.
Lei non vede più soltanto l’aspetto fisico di suo fratello, ma è consapevole dei livelli più sottili, allora lei non è più complice della sua sofferenza.
Ogni pensiero è un’immagine e ogni immagine stimola l’affettività. In altre parole, nel momento in cui l’immagine sorge nella mente, essa percuote tutte le vostre funzioni chimiche e neurologiche, e questo produce una reazione.
Perciò quello che voi pensate come sofferenza è una reazione evocata dall’immagine che avete creato.
Può stupirvi scoprire che quando vi trovate di fronte a vostro fratello senza proiettare su di lui un’immagine, egli non può più localizzarsi in alcun luogo, né nel suo corpo né nella sua pena né nelle sue idee.
Lo rendete libero, perché egli non ha più la possibilità di creare un’immagine di se stesso.
E una volta caduta la provocazione che spingeva a produrre un’immagine, la guarigione compie il suo corso naturale.
Jean Klein